domenica 12 aprile 2015

La ferita più dolorosa non è il non essere amati, ma il ritenersi non degni di amore

La ferita più dolorosa non è il non essere amati, ma il ritenersi non degni di amore
di Francesco Lamendola - 20/04/2009

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] 



Il teologo e psicanalista Peter Schellenbaum, di tendenza junghiana, ha parlato nei suoi libri («La ferita dei non amati», «Il no in amore») della mancanza di amore come della ferita più grave che si possa infliggere all'essere umano.
Crediamo che si possa accettare questa tesi, a patto di integrarla con quella di Henri J. M. Nouwen (psicotearpeuta e sacerdote olandese, morto nel 1996: uno dei massimi scrittori di spiritualità del mondo contemporaneo), secondo la quale tutta la nostra vita è contrassegnata da una lotta contro le voci interiori che ci dicono - ora sommessamente, ora gridando - che non siamo abbastanza bravi, intelligenti o attraenti, che non siamo abbastanza spirituali e degni di amore.
«Nel corso degli anni - egli afferma - sono giunto a capire che la più grande trappola della nostra vita non è il successo, la popolarità o il potere, ma il rifiuto di sé» (in «Sentirsi amati. La vita spirituale in un mondo secolare», Brescia, Queriniana, 2000).
Per Nouwen, tuttavia, la trappola del rifiuto di sé e della convinzione di non poter essere amati per noi stessi, ma solo per qualcosa che facciamo per gli altri o che gli altri si aspettano di ricevere da noi, non è di natura tale che gli esseri umani la possano vincere con le loro forze, poiché essi sono fondamentalmente incapaci dell'amore gratuito.
Solo Gesù Cristo, per Nouwen - e questo è l'aspetto della sua riflessione che, certamente, lascerà insoddisfatto un laico, specialmente se pervaso dalla presunzione hegeliana che si possa mediare tutto e, quindi, che si possa anche disciogliere la polverina del cristianesimo in una bella tisana di marca New Age - è capace di amarci per noi stessi, per quello che siamo realmente, dietro le molte maschere che indossiamo per nascondere agli altri le nostre debolezze, le nostre paure, le nostre incoerenze.
Poiché si tratta del nucleo centrale del pensiero di questo prolifico scrittore, autore di 40 volumi di teologia e spiritualità, ci piace riportare per intero il suo ragionamento, affinché il lettore possa farsene un'idea da se stesso (in: Henri J. M. Nouwen, «Il primato dell'amore»; titolo originale: «Henri Nouwen:. Writings Selected with an Introduction by Robert A. Jonas», Orbis Book, Maryknoll, 1998; traduzione di Maria Sbaffi Girardet, Brescia, Queriniana, 2001, pp. 129-31):
«La cosa più importante che puoi dire dell'amore di Dio è che Dio ci ama non per qualcosa che abbiamo fatto, per guadagnare il suo amore, ma perché egli, in totale libertà, ha deciso di amarci. A prima vista questo non sembra ispirarci molto, ma se vi rifletti più in profondità,  questo pensiero può toccare e influenzare grandemente la tua vita. Siamo propensi a vedere tutta la nostra esistenza nei termini di un "quid pro quo" - io gratto la tua schiena, così tu gratti la mia -, e partiamo dall'idea che le persone saranno gentili con noi se siamo gentili con loro; che ci aiuteranno se le aiutiamo; che c'inviteranno se le invitiamo; che ci ameranno se le amiamo. E questa convinzione è così profondamente radicata in noi che riteniamo che l'essere amati è qualcosa da guadagnarsi. Nel nostro tempo pragmatico e utilitaristico questa convinzione è diventata ancora più forte e ci è difficile pensare di avere qualcosa in cambio di nulla; tutto dev'essere conquistato: anche una parola gentile, un'espressione di gratitudine, un segno di affetto. Penso che questa mentalità stia alla base di un mucchio di ansia, di tanta inquietudine e agitazione. È come se fossimo sempre in movimento, cercando di provarci a vicenda che meritiamo di essere amati. Il dubbio che alberga in noi ci spinge a un attivismo ancora più frenetico. Cerchiamo così di tenere la testa fuori dell'acqua e di non affogare in una mancanza di rispetto per noi stessi sempre crescente.  La fortissima inclinazione a cercare riconoscimenti, ammirazione,  popolarità e fama è radicata  nella paura che, senza di essi,  siamo senza valore. Si potrebbe chiamarla  la "commercializzazione" dell'amore. Niente per niente, neppure l'amore.
Il risultato è uno stato interiore che ci fa vivere come se il nostro valore come esseri umani dipendesse dal modo in cui gli altri reagiscono nei nostri confronti., Lasciamo che siano gli altri a decidere chi siamo. Pensiamo di essere buoni se gli altri trovano che lo siamo; pensiamo di essere intelligenti se gli altri reputano che lo siano; pensiamo di essere religiosi se lo ritengono anche gli altri… Vendiamo così la nostra anima al mondo, non siamo più padroni in casa nostra. I nostri amici e nemici decidono chi siamo; siamo diventati il trastullo delle loro buone o cattive opinioni...
La cosa tragica, però, è che noi esseri umani non siamo capaci di dissipare gli uni per gli altri la solitudine e la mancanza di rispetto di sé.  Non abbiamo la capacità di alleviare la situazione più radicale gli uni degli altri. La nostra capacità di soddisfare il desiderio più profondo dell'altro è così limitata che rischiamo sempre di nuovo di deluderci a vicenda…
Ogni cosa che Gesù ha fatto, detto e subìto è intesa a dimostrarci che l'amore al quale più aneliamo ci è dato da Dio, non perché lo meritiamo, ma perché Dio è un Dio di amore… Se avessimo una salda fede nell'amore incondizionato di Dio per noi non sarebbe più necessario essere sempre alla ricerca del modo di essere più ammirati dalla gente e ancora meno avremmo bisogno avremmo bisogno di ottenere dalla gente la forza che Dio desidera darci in abbondanza ]da "Lettera a un  giovane].»
Secondo Louwen, solo Do ci ama per quello che siamo, indipendentemente da nostri meriti e dalle nostre qualità, perché Egli solo è capace di amore totalmente gratuito e disinteressato; Egli solo ci ama senza aspettarsi di essere ricambiato.
Tuttavia, noi crediamo che esista qualcun altro capace di amarci di un amore di questo genere: qualcuno che, appunto, può anche svolgere il ruolo d’intermediario fra la nostra imperfetta capacità di amare e l’Amore perfetto, proprio di Dio. Intendiamo parlare, ovviamente, delle persone a noi care che sono defunte.
In genere, noi pensiamo ai defunti come  a dei morti, contrapponendo la loro condizione alla nostra, di uomini vivi. Ma, se noi incominciamo a guardare alla realtà come a un continuo spazio-temporale, ci rendiamo subito conto che noi siamo «vivi», nel senso di legati ad una dimensione fisica dell’esistenza, solo per un breve tratto di strada: proprio come un viaggiatore che, dal finestrino dell’automobile, vede scorrere il paesaggio accanto a sé, e non è più in grado di vedere i luoghi attraversati in precedenza, né quelli non ancora raggiunti; eppure egli sa bene che tali luoghi esistono.
Arriviamo così alla conclusione, paradossale solo in apparenza, che i morti non sono affatto tali, ma sono vivi; che ogni cosa è viva, sempre; che ogni lacrima, ogni sorriso, ogni fiore sbocciato sul prato, esistono per sempre. Siamo noi, che ci crediamo vivi - ma che siamo, piuttosto, dei ciechi presuntuosi - incapaci di vedere tutto questo: è una nostra limitazione, non un dato della realtà. La mentalità scientista e positivista ci ha convinti che solo ciò che cade sotto i nostri sensi, solo ciò che si può misurare e spiegare razionalmente, esiste; tutto il resto è frutto di fantasie e superstizioni oppure, semplificamene, non è degno di rilievo.
Ebbene, i nostri cari che ci hanno preceduto nell’altra forma di esistenza vedono e odono l’intero orizzonte della realtà totale, perciò conoscono tutto, compreso ciò che noi chiamiamo passato e futuro, e leggono anche nel profondo dei nostri cuori. Essi continuano ad amarci, ma senza più quel residuo di egoismo che inquina anche il sentimento umano più puro e disinteressato.
Esiste una ricca documentazione che attesta quanto abbiamo ora affermato: casi di sogni premonitori, ad esempio, in cui una persona cara defunta comunica qualcosa che può perfino salvare la vita al proprio congiunto. Certo, esistono anche inganni e allucinazioni; ma i casi autentici sono numerosi e incontrovertibili. La scienza accademica gita la testa dall’altra parte, per non vederli e non doverne prendere atto: perché, se lo facesse, dovrebbe rimettere in discussione il proprio assioma fondamentale: che la mente è solo una funzione del cervello.
Noi sappiamo, invece, perché lo testimoniano casi convincenti e perché ce lo suggerisce il ragionamento filosofico, che il cervello è l’organo della mente, ma non coincide con essa; che la mente è immateriale e incorporea; che, quindi, essa sopravvive al corpo, può comunicare direttamente con le altre menti ed avere, in determinate circostante, una visione globale della realtà: passata, presente e futura.
In definitiva, noi sappiamo che oltre alla piccola mente corporea, limitata nello spazio e nel tempo ed espressione del nostro piccolo io, esiste una «mente non localizzata» (come la chiama Larry Dossey), la quale si può muovere liberamente senza alcun ostacolo nello «schema globale di esistenza», per il usare l'espressione adottata dal grande matematico Luigi Fantappié, con cui si può  designare il continuum spazio-temporale. Ed è questa la mente superiore, la mente che può uscire dal corpo: e, se lo può fare in circostanze casuali, legate a una particolare attitudine medianica di un determinato soggetto, a maggior ragione lo può fare allorché i vincoli con il corpo vengano recisi della crisi della morte.
Crediamo che a questa parte superiore della mente spetti, propriamente, il termine di «anima»: tenendo ben presente che, per dirla con René Guénon, la morte non rappresenta la fine dell'esistenza, ma il passaggio ad una differente dimensione dell'esistenza stessa.
L’amore gratuito delle anime disincarnate delle persone care è una forma di comunione fra anime: qualche cosa di enormemente superiore al più perfetto amore umano: perché, nella dimensione spazio-temporale, i nostri sentimenti e le nostre passioni sono deformati da un insieme contraddittorio di circostanze contingenti, che ci impediscono di realizzare l’incontro perfetto con un’altra anima, l’unione assoluta e incondizionata.
Ne era convinto, fra gli altri, il filosofo Gabriel Marcel, del quale ci siamo occupati in diversi lavori precedenti e le cui idee in proposito sono stare efficacemente sintetizzate dallo studioso Leo Talamonti nel suo libro «Parapsicologia della vita quotidiana» (Milano, Rizzoli, 1975, pp. 89-90), da cui riportiamo il seguente passaggio:
«Una delle “scoperte” che ha fatto Gabriel Marcel non tanto nella sua qualità d filosofo e sapiente, quanto piuttosto d sensitivo  e medium capace d andare più a fondo d altri nella  problematica dell’animo umano, consiste nel fatto  che alla amara condizione rappresentata dalla solitudine  alienante dell’uomo vi è un solo rimedio possibile – la comunione -; ma non è cosa alla portata di chiunque; bisogna saper amare. Ne consegue, come un corollario, che è meno solo chi si sente in comunione perenne con qualche amato scomparso, di quanto non siano dei viventi i quali si facciano abitualmente  compagnia, ma senza alcuna forma di reciproca compenetrazione spirituale.
S’intende che tutto ciò non può essere che aberrazione e follia, per i pontefici della psichiatria e psicoterapia; ma con tutto il rispetto, non crediamo  che essi possano far molto per rimediare alla solitudine umana, pur sapendo classificare così bene  i deliri. Come finiscono i ciechi guidati da un altro cieco? Sono duemila anni da che fu posta questa domanda, e ancora  la gente seguita a comportarsi come se ignorasse la risposta; difatti s consegna a mani legate a guide che sanno tante cose… ma sono pravamente cieche d fronte  alle verità fondamentali: quelle di carattere spirituale. Una delle quali è stata felicemente enunciata da una madre[…], la quale è già vissuta e vive in comunione  spirituale con l'unico figlio scomparso; e proprio per questo ha avuto modo di accorgersi "che non vi è passato né presente, ma un'eternità senza confine, per ogni grande amore (Welma Sorrentino, "Dialogo con Maurizio, Gesualdi editore, Roma, 1972).
Analoghe situazioni ritroviamo in altri scrittori:  come nel caso di Rosamund Lehman, che aveva perso la sola figlia che aveva; e in quello del veggente francese Belline, il quale restò in contatto mentale con l'unico figlio perduto quando era ancora giovanissimo, per un incidente d'auto; e da quei contati "spirituali" , più ancora che "mentali", trasse lo spunto per un libro ("Las troisième oreille", Laffont, Paris, 1971), che ebbe l'onore di una presentazione da parte di Gabriel Marcel. Alla ricchezza e all'umano significato universale di tutte queste esperienze, nulla può togliere il fatto che esse siano classificabili come "soggettive": ecco la verità  che stenta a farsi strada nelle piccole menti, quelle  che si rifugiano nel razionalismo come in una fortezza. Per resistere accanitamente agli assalti di una realtà che trascende, è vero,  le umane esperienze sensoriali, ma non quelle mentali.  E invece sarebbe ora di accorgersi che accanto a una oggettività fisica, ne esiste anche una ultrafisica, la quale  è definibile anch'essa, in qualche modo,  in senso "operativo", purché si abbia il buon senso  di riconoscere che esistono "operazioni dello spirito", oltre che operazioni della materia.
Scrive Marcel, nella prefazione al libro di Belline (il quale ultimo, detto tra parentesi, non è soltanto un veggente, ma anche un letterato di un certo valore): "Io mi riconosco il diritto di protestare energicamente contro coloro che in nome di non so quale scientismo  si pronunciano a priori contro la realtà di simili contatti..  Ciò che si deve proclamare a voce alta, come ho fatto io stesso in passato è più di una volta, è che quei messaggi hanno una loro destinazione univoca e precisa:  non sono fatti, cioè, per un qualsiasi osservatore spersonalizzato, come potrebbe essere il caso di una qualsivoglia esperienza di laboratorio. Siano anzi agli antipodi di un'esperienza di quell'ordine, come lo saremmo nel caso di due esseri che stiano effondendo i propri sentimenti amorosi.»


Dunque, solo Dio e solo i nostri cari passati nell'altra dimensione ci amano spassionatamente e gratuitamente. 
Eppure, a ben guardare, vi sarebbe un terzo soggetto capace di tanto, almeno in linea teorica e a determinate condizioni: noi stessi. Ma, per fare eco alle sagge parole di Talamonti, si tratta di saper amare, il che non è cosa da tutti; di amare, cioè, nella maniera giusta; mentre, in questo campo, moltissimi sono coloro i quali credono di essere dei maestri, mentre non sono che degli autentici analfabeti.
Amare se stessi nel modo giusto, significa desiderare e cercare il meglio per la propria parte essenziale, ossia per la propria anima; trascurando, semmai, la parte contingente ed effimera, la quale, essendo legata alle limitazioni del corpo, invecchierà e, un giorno, verrà messa in disparte, come un vestito che abbia ormai esaurito la propria funzione.
E il meglio cui tutti aspirano, ma - in genere - in maniera possessiva e confusa, non può essere che l'amore: quello vero, quello disinteressato, quello gratuito, paziente e inesauribile. Fare della propria anima uno strumento bene accordato, capace di vivere nella dimensione dell'amore: questo è il vero scopo della nostra esistenza, la ragione per la quale ci è stato dato un corpo e siamo stati immersi nella dimensione dello spazio e del tempo.
Nessuno può amarci più e meglio di quanto ci potremmo amare noi, se tenessimo ben fermo questo obiettivo; ma ciò presuppone la capacità di riconoscersi, guardarsi dentro e accettarsi, ossia, in definitiva, di scegliersi; e non è cosa che si possa improvvisare, ma che sopraggiunge, semmai, quale ricompensa ad un cammino di evoluzione spirituale impervio, tenace e coraggioso.
Ecco perché molti di noi si sentono indegni di essere amati per quello che sono: perché avvertono, intuitivamente, che essi per primi non sanno amarsi abbastanza; e che, di conseguenza, ciò che sono diventati non è che la brutta copia, quasi la caricatura, di quello che avrebbero potuto e dovuto diventare. 
E se io non mi amo abbastanza da desiderare e ricercare il meglio per me stesso, come posso sperare che altri provino per me un amore più grande di quello che mi concedo?
Dunque, per sentirsi degni di amore, bisogna riacquistare pregio ai propri occhi; e non vi è altro modo  di farlo, che quello di rimboccarsi le maniche, smettere di compatirsi e rialzare la testa, impegnandosi con ogni fibra a realizzare la propria evoluzione spirituale.
Solo un tale impegno ci renderà belli e desiderabili; solo così acquisteremo un valore evidente, che ci renderà amabili agli occhi dell'altro.
Ma, poiché il simile attira il simile, a quel punto l'incontro fra due anime non sarà più una evasione fuggevole, capace magari di lasciarsi dietro delusione e amarezza; ma la comunione di due anime desiderose e capaci di arricchirsi reciprocamente, di donarsi l'un l'altra, di aiutarsi a perfezionarsi ulteriormente.